Il senso del jazz (tra filologia e modernità)

KIRK LIGHTSEY QUARTET
KIRK LIGHTSEY PIANO  PAUL ZAUNER TROMBONE  WOLFRAM DERSCHMIDT CONTRABBASSO  
DUSAN NOVAKOV DRUMS

ASCOLI PICENO – COTTON LAB  [Cotton Jazz Club Ascoli]  3. 5. 2024  h21

 Il senso del jazz, tra filologia e modernità: poteva essere questo, stasera, il titolo della straordinaria Lectio Magistralis in musica del – veterano – Kirk Lightsey e del suo – non veterano – quartetto al Cotton JazzClub Ascoli. 

Una “lezione” entusiasmante e imperdibile, in cui il jazz standard della tradizione novecentesca è apparso diverso, libero da quella sua patina di tarda malinconia, lontano da quella sua immagine un po’ statica e prevedibile. Rinvigorirlo con un mosaico di sonorità abbaglianti e tuttavia rispettose, è ciò che ha fatto il pianista che forse più di tutti del jazz “antico” s’intende: Kirk Lightsey, appunto. Facendo emergere, di quel jazz, da un lato l’anima filosofica nascosta: la romantica rotondità dello swing – di lontano sapore beethoveniano, perfino – la pulsante energia sotterranea del blues, le prudenti o avventurose esplorazioni tra realtà e fantasia che di continuo fermentano in questo fluido genere musicale; producendo, dall’altro, continue innovazioni lampo sul tema, di sorprendenti e inesauribili tecnica, talento e giovanile energia.  Sempre con classe naturale, dialogando instancabile e felice in ogni maniera, teatralmente, coi suoi fidi musicisti e con noi. 

Neppure all’intervallo ci ha concesso riposo, abbracciandoci uno ad uno nei corridoi, al bar. Si toglie la giacca giusto alla fine del concerto. Prima, pattugliando i muri dell’auditorium con le locandine, i manifesti, i poster e i murales fotografici dei musicisti esibitisi nei decenni al Cotton (saranno più di cento!), s’era soffermato su ognuno con devozione e affetto: di tutti si ricorda, ha suonato con tutti… 

Oggi Lightsey viaggia nel tempo e non smetterà, rilancerà anzi ancora più forte, col suo jazz d’impianto tradizionale eppur fonte di “modernità” e di quelle sorprese che da lui ti aspetti… E tuttavia niente di spaesante, stravagante, funambolico. Con le dita sprint che si muovono con sicura gioia come sul velluto, nelle dinamiche percussive come nelle sospensioni mistiche; e note tante, ma col dovuto infinitesimale silenzio tra loro. E quei suoni determinati – temperati – e indeterminati, e il coesistere di modo maggiore e minore, le dissonanze al cubo, quei riverberi elicoidali ed eleganti. E quel tempismo d’incanto del quartetto, che tutto enfatizza. 

Per i tre, lo spartito è lui, comunicatore naturale che “vede” la musica prima di sentirla. Però attenti a quei 3, relativamente giovanissimi, ma tutt’altro che comparse. 

Il composto Novakov alla batteria, gli occhi puntati su Lightsey a intuirne e sottolinearne le invenzioni, le sue “riflessioni” sui piatti, le sue raffiche-di-pace morbide, i suoi pensieri sorridenti, sempre al tempo giusto. 

Derschmidt-con-cappello al contrabbasso, magro ma tosto, finissimo solista, ordinato mediatore di suoni e di silenzi e complice delle trombonesche incursioni del possente Zauner -lì davanti col trombone a stantuffo di locomotiva a vaporedalle bassissime monumentali frequenze di vocalità di foresta – pensoso fabbricante di note d’avventura quasi buffe, quasi umane, chissà… forse di derivazione fiabesca. Anima nobile e perfino emozionale attore solista, declamatore autorevole di storie e canti baritonali in inglese (beh, con accento viennese…). 
BRA–VI.

                                                                                PGC 

GOTT MIT UNS

GOTT MIT UNS

 “I gruppi dirigenti […] sono allo stesso tempo coscienti e non coscienti di quello che stanno facendo: le loro vite sono dedicate alla conquista del mondo, ma sanno anche che la guerra deve continuare per sempre e senza alcuna vittoria.”

        (G. Orwell, “1984”)

  Se la biondocrinita bersagliera di lotta e di governo si fosse informata, al Raduno Nazionale dei Bersaglieri nella leghistissima Ascoli Piceno non si sarebbe piazzata in testa il cappello piumato a mo’ di padella da cucina come fanno le reclute ignare e maldestre, condannate perciò da consolidata regola militare a pagare da bere a tutta la caserma.

Se lo sarebbe ben collocato con inclinazione a 45°, e verso destra (manco a dirlo!) e “in modo da coprire il sopracciglio e appoggiarsi sul lobo”: così dev’essere, le regole sono regole.

Improbabile che abbia pagato da bere a tutto il cucuzzaro, lei-non-sa-chi-sono-io eccetera, però ad Ascoli è stata comunque una giornatona, la sua, con corsetta d’ordinanza (quando traffichi con bersaglieri è il minimo che ti capita) fatta passare spiritosamente per inattesa e improvvisata ma se ti presenti già in tuta e scarpe da running non puoi fare la faccina stupita: al saggio finale delle elementari recitano meglio.

     E’ il marketing, bellezza, la ragazza lo sa e vince facile, dato il parterre che le sbava intorno: folle festanti, “Ascoli pazza per i bersaglieri” e “L’abbraccio di Ascoli ai Bersaglieri, emozioni e spettacolo…”sono i titoloni più moderati della stampa locale in eccesso di salivazione e somara in italiano; orgasmo collettivo ed estasi di Santa Teresa tra i giornalisti piceni, marchigiani in genere e nazionali, per le sue performance piacione: la corsetta col sindaco al fianco (che ha l’espressione un po’ così, diversamente sveglia, ma lui fa le maratone, ci tiene a dirlo) e poi il cappello piumato sulla capoccetta, e poi le carezze al bambino… Com’è umana lei, signora mia.

Si potrebbe morire dal ridere, o dalla noia invece, se non fosse che i tre giorni di megaeventi ascolani con sconfinamenti in provincia, lievitati intorno ai “fanti piumati” (scrivono così, che volete farci) – e auguriamoci che le piume siano finte, ma considerato il contesto non ci scommetterei – fanno il paio con le celebrazioni nazionali per il 163° anniversario della fondazione del glorioso Esercito patrio, pochi giorni prima – 3 maggio – all’Ippodromo militare romano di Tor di Quinto, sempre alla presenza della Fratelladitaglia.

Niente di nuovo sul fronte occidentale: altri papaveri di governo vi hanno partecipato in passato, solo che stavolta è un filino più sinistro.

Perché l’iconografia è più muscolare e pettoruta di sempre; perché la retorica bellicista pervade di sé ogni anfratto dell’informazione e della propaganda politica, esplicita e subliminale, e passa l’idea che dulce et decorum est pro patria mori specie se l’industria delle armi in Italia tira che è una bellezza e imprenditori e politici e politici/imprenditori e politici/ex imprenditori brindano a champagne.

     Così l’occhiglauca Fratelladitaglia che in piedi sul veicolo bellico, davanti alla Bandiera di guerra dell’Esercito, criniera al vento e sguardo corrusco, sfila insieme alla santabarbara dei sistemi d’arma (vedere per credere) è il definitivo suggello alla normalizzazione dell’idea stessa di guerra

     E’ sempre per gradi, d’altronde, che avanza il peggio. 

Già  metabolizzammo il summit europeo di Strasburgo con la folle teorizzazione del passaggio dell’Europa ad una ”economia di guerra” (sic); poi i deliri di Macron-Napoléon – “il capo di stato più stupido d’Europa” – che s’è stufato di giocare coi soldatini finti a casa sua e vuol mandare quelli veri sul fronte ucraino, per vedere l’effetto che fa; poi l’incremento sconsiderato della spesa nazionale per gli armamenti con sottrazione di risorse a tutti i settori fondamentali della vita pubblica (è di oggi il reiterato “ordine” NATO di arrivare subito al 2% del PIL nazionale. Signorsì, signore!).


Non ci resta che assimilare la retorica bellicista condensata nell’orwelliano “La guerra è pace” – del resto sembra che ci piaccia, a giudicare dalle folle festanti – e far nostro il motto, summa della più cupa simbologia bellica nella storia tragica dell’umanità in armi:

GOTT MIT UNS
Dio è con noi.

  QUALE Dio?…

Dal web:
“Nei giorni 2  e 3 maggio è stato allestito presso l’Ippodromo militare Tor di Quinto il ”Villaggio Esercito”, un’area in cui i cittadini hanno potuto avvicinarsi al mondo “con le stellette” cimentandosi in attività quali il military fitness, l’arrampicata su parete di roccia artificiale […], una stazione di addestramento virtuale e altri sistemi di simulazione di tiro, di volo e di guida […] tutto al ritmo della musica di Radio Esercito”

https://www.esercito.difesa.it/comunicazione/

8 Maggio 2024 Sara Di Giuseppe

NON BASTA UNO SGUARDO, E NEANCHE DUE

NON BASTA UNO SGUARDO, E NEANCHE DUE

Paola Tassetti: “La coscienza dell’occhio venne chiamata due cuori
a cura diALEX URSO
Ripatransone–FIUTO ART SPACE [con esposta bandiera palestinese]27.4 – 30.6.2024

      “GOD UNDERSTANDS”, Dio capisce. Purtroppo noi un po’ meno, specie se andiamo di fretta. Infatti per questa mostra non basta uno sguardo, e neanche due, per capirla ci vuole il suo tempo (d’aspetto)*.

Paola Tassetti non è facile, tanta è l’attrezzeria di scena. Però i suoi lavori sono geometrie pirotecniche che non si spengono, restano fisse sulla tela, le puoi osservare con calma in tutti i sorprendenti ingredienti. Un emporio del mondo. Se ti ci avvicini al ralenti come quando al telescopio cerchi una via in qualche galassia farai scoperte che non vuoi. Allora il tempo scompare tra le pause come in musica, tra sorprese e misteri e dolori. 

Questioni umane di corpi, di “interni” mai visti, di materia e di colore, di composizioni ardite, di scomposizioni impossibili ma pensate, quindi possibili. Simil-figure intrecciate di vegetali e di animali, di presenze subacquee senza mare né acqua. Grandi insetti in agguato, ossa grigie scomposte come alberi d’Amazzonia, robot senza acciaio, paesaggi verticali di freddezza nordica, meccanismi dall’ingegneria improbabile, puzzle che formano ombre stregonesche e fiori come di vetro di Murano. 
Ogni tanto appare qualche parte umana ma non nel posto assegnato, in collage con anime altrui, e bronchi azzurri, mani, ali di pipistrello, foglie, arabeschi di vegetazione ibrida poco decorativa ma evidentemente necessaria. 

Opere di palcoscenico di teatro, con bizzarre storie mute che spaventano quanto basta, che insegnano senza troppo farsi capire, quasi sempre con quei fondali bianchi architettonici irreali pronti per altri fantasiosi contenuti vagamente ospedalieri. Intorno fioriscono, irradiandosi con leggerezza, fasci di scie tratteggiate di aerei invisibili calamitati da qualcosa: producono stati d’animo inquieti e ricorrenti, come a circoscrivere spazi di combattimento.

I quadri più piccoli, scuri, con moltitudini di colori intensi, sembrerebbero autoritratti di nature (morte) notturne, sazie di passioni e di emozioni poco allegre. Maschere della commedia dell’arte. E come sentinelle, occhi singoli sparsi, indagatori e adimensionati, secondo PT dotati di “coscienza”(!?). 

Tanto che guardandoli di bolina con i tuoi, concentrato e senza distrazioni, può succederti di scomporti nell’intimo come davanti ad uno specchio della personalità. 

Fino a sentirti (per un certo tempo*) “straniero nel corpo”.

*C’è un tempo d’aspetto come dicevo
       Qualcosa di buono che verrà
       Un attimo fotografato, dipinto, segnato
       E quello dopo perduto via
       Senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata

       La sua fotografia …                      [C’è tempo – Ivano Fossati]

30 aprile 2024                    PGC  

Momenti di assenza

Momenti di assenza


KRISTJAN RANDALU TRIO

“ABSENCE”
KRISTJAN RANDALU  PIANO      NELSON VERAS  CHITARRA      MARKKU OUNASKARI  BATTERIA
ASCOLI PICENO – COTTON LAB [Cotton Jazz Club Ascoli]19. 4. 2024  h21

Pensavo fosse un trio strano. Ci sono – ma non è una barzelletta – un estone, un finlandese (due dirimpettai del freddo quasi vicini di casa, quasi russi), con in mezzo un brasiliano che non sembra brasiliano. Tre giovani ad occhio della stessa età, nerovestiti come usano gli architetti. Mai visti e mai sentiti prima (o sono sempre io l’impreparato, come a scuola). E senza contrabbasso – che intanto mi pare una strana “assenza”. Nella penombra del non pienissimo silenzioso Cotton, stasera ci si guarda e ci si saluta più col sorriso che con le parole (che strano, si son dimenticati d’accendere quel buon jazz d’accoglienza…), tra ombre che si cercano, che indugiano dove sedersi, che forse pensano: “ABSENCE”, cosa sarà che manca?

       No, al concerto non mancherà niente, anzi. Saranno tutte presenze (“presence”?) consapevoli di bellezza di ascolto di giusta e rara musica: indispensabili momenti di assenza del superfluo, che normalmente ci mancano perché ce li fanno mancare, o ce li rubano. 

Poi, non serve raccontarlo questo (strano) trio – almeno io non so farlo – anzi penso sia impossibile: il piano di Kristjan Randalu che irradia musica autoprodotta, improvvisata, romantica e abbagliante, rigorosa e asburgica, lirica e jazz (somiglia un po’ – essendone anche profondamente diversa – a quella di Keith Jarrett), che sembra suonata su 2 pianoforti distinti – uno di circa 3 ottave l’altro di 4 – in qualche modo “comunicanti” manco fossero i famosi vasi di Stevino…[una parte dei bassi del primo funzionano spesso anche da mezzo contrabbasso – che non c’è – mentre le note dell’altro mezzo contrabbasso mancante fuoriescono dalla chitarra di Nelson Veras!].

La batteria di Markku Ounaskari, che con leggerezza crea continui spazi liberi per la mente piuttosto che ritmiche divisioni o confini, evoca (immagino, non ci sono mai stato) popolari presenze di tradizioni e storie di Finlandia, di vite da romanzi russi, con slarghi paesaggistici di meditazione del Grande Nord. Mai Markku bastona i piatti, piuttosto li sfiora con le punte! In mezzo, la semiacustica di Nelson Veras che non si è mai fermata, anche perché essendo lei la terza solista su tre, nessuno spartito glielo ha permesso. Kristjan la coinvolge in tutto, dai complicati contrappunti aerei all’imperioso protagonismo confortante di (mezzo) contrabbasso.

Assenti gli accordi fascinosi ma arrembanti alla Jimmi Villotti, niente tracce di Sudamerica, ma decise sonorità di pianoforte, arpeggi d’acqua, dissonanze, per visioni e silenzi e rumori di foreste e di laghi… E a riprova che il movente del jazz è ovunque ci sia ansia e coraggio di liberazione e sperimentazione, Randalu, da solo, ci offre anche il “suo” Schumann delle canzoni romantiche, forse più alla mano per noi. Interpretandolo sempre nella scia della sua formazione classica, ne emerge un ritratto oltre il limite della scena rituale, pieno di astrazione, di poesia, di assenza.  

E’ l’essenza del jazz nordico, cui non manca niente.

       25 Aprile 2024                       PGC   

Monologo di Antonio Scurati

Ecco il testo del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile: lo scrittore avrebbe dovuto leggerlo su Rai3

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10giugno 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come aveva lottato per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944”.

Ed eccole, dunque, queste stragi, le più efferate: Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati. Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023)”.

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”.

IL CORPO È UN PAESAGGIO

IL CORPO È UN PAESAGGIO

“Land of Body”
(Krajina těla)

Soggetto, regia, coreografia:  Radim Vizváry
Drammaturgia: Hana Strejčková
Musica: Robert Jiša
Národní Divadlo (Teatro Nazionale)
Laterna Magica
12 Aprile 2024 h20

Un poco ci riguarda
il movimento della luna.
Il nostro corpo è d’acqua,
di nuvole fra poco
(Franco Arminio, in Cedi la strada agli alberi)
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Testimonianza dell’esistenza, territorio protetto e al tempo stesso selvaggio”: è il corpo umano  – nelle parole di H.Strejčková – deposito di saperi e memorie ma anche humus fertile per l’innesto di nuove colture e vita. E del paesaggio, che percepisce e al quale simultaneamente appartiene, il corpo umano è metafora: i suoi cicli esistenziali sono quelli stessi della natura, a questa è intimamente connesso, ne condivide le sorti, ne determina  la storia.

Misterioso laboratorio, il corpo, centro ispiratore di uno spettacolo che è “poesia visiva”, celebrazione di quel Land of Body che con la natura ha in comune bellezza e vitalità, fragilità e vulnerabilità.

Del corpo umano – che al pari del paesaggio è armonia e disarmonia, simmetria e asimmetria, lotta per la sopravvivenza, stratificazione di esperienze – sono su questo palco tre generazioni di artisti a disegnare la parabola esistenziale, il ciclico avvicendarsi delle stagioni.

Sono la coppia di danzatori della vecchia generazione le cui abilità sono impresse nella memoria corporea in quel modo indelebile e carismatico che supera i limiti fisici dell’età; sono i giovani danzatori-acrobati nel pieno delle loro potenzialità spinte al limite delle capacità fisiche; e la bambina, infine, che sostituisce la nuova generazione alla vecchia perchè la vita continui lungo lo stesso asse.

La bambina, i danzatori acrobati, i ballerini più anziani: una “galleria della fisicità”, aggregata – quasi  un mosaico – da coreografie comuni mentre la tecnica cinematografica moltiplica attraverso undici schermi – non accessori ma componenti integranti della scena – le parti e le movenze del corpo umano in arabeschi e geometrie in tutto simili agli elementi della natura e del paesaggio: le dita intrecciate sono catene montuose, la muscolatura di un torso una morbida pianura, un’iride è il fondo di un vulcano…

L’energia esplosiva che promana da ogni movimento – di precisione millimetrica – degli artisti, maestri nelle rispettive discipline, trova in questo laboratorio sperimentale del Teatro Nazionale che è il “Laterna magica” – destinato fin dal suo concepimento alle produzioni d’avanguardia – il contenitore ideale per accogliere la permeabilità di generi artistici differenti e unire trasversalmente danza classica e contemporanea, pantomima, teatro fisico, tecnologie cinematografiche, acrobazie aeree.

Ma non è solo perfezione tecnica ciò che arriva allo spettatore, né solo il livello artistico degli interpreti, così elevato da attraversare il biancore asettico della scena e dei costumi per trasformarsi in energia emotiva che calamita il pubblico e ne coinvolge ogni fibra.

È anche, nel celebrare il legame intrinseco con la natura – affidata ai linguaggi diversi del corpo e dell’arte – l’evocazione di quel kalòs kai agathòs che il pensiero greco volle,in antico, essereprincipio di armoniosa unione di virtù morali, spirituali e fisiche.

E, ineludibile, nasce la spinta a interrogarsi sulla distanza: quella che le nostre presunte civiltà hanno tracciato, incolmabile ormai, fra la natura – materno utero e tempio inviolabile – e la nostra arrogante infinita fragilità.

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perché è caduto il respiro che univa l’uomo alla pena
dell’uomo
l’uomo alla difficile fragranza della terra.

(G.Dimarti, in “Il tempo che ci siamo dati”)

20 Aprile 2024                                               Sara Di Giuseppe

“Vengo da un altro mondo e tu mi sogni”

“Vengo da un altro mondo e tu mi sogni”

“La Sylphide”
Coreografia    Johan Kobborg
Musica   Herman von Løvenskjold

Corpo di ballo del Teatro Nazionale di Praga
Orchestra dell’Opera Nazionale di Praga
Teatro dell’Opera
PRAGA
10 Aprile 2024 h19

Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni
(W.Shakespeare,  La tempesta)

Sono una silfide, vengo da un altro mondo e tu mi sogni, sussurra all’orecchio del giovane James la lieve creatura d’aria e di vento, fantasma o figura reale chi può dirlo. Danza per lui, che se n’innamora perché l’anima inquieta lo spinge in un altrove visionario, al di là di ciò che è terreno. Ma l’alata creatura d’aria e di vento non può essere afferrata, perché “se tocchi un sogno, il sogno muore”: muore la silfide con le sue ali cadute nell’abbraccio mortale, e muore colui che nell’amarla la perderà per sempre.

C’è nell’ottocentesca fiaba struggente e tragica tutto il romanticismo nordico col suo corredo di atmosfere ossianiche e di leggende gaeliche: c’è il cupo maniero in Scozia – dimora dello sventurato James – e c’è il bosco della strega cattivissima Madge con la sua corte di streghe cattive almeno quanto lei, con tanto di sabba e pentolone dove ribolle ogni sorta di pozione – niente di salutistico, da scommetterci –  e ci sono i voli notturni delle aeree silfidi dei boschi, creature dell’aria che ben poco possono per migliorare l’atmosfera…

Paradigma di un rinato bisogno di spiritualità, è quest’universo misterioso e magico ad irrompere anche nella danza e a fare della Sylphide – dalla versione pionieristica dell’italiano Filippo Taglioni a quella definitiva del danese Auguste Bournonville per il Balletto Reale di Copenhagen (1836) – l’archetipo del balletto romantico, prima ancora dell’altro balletto – archetipico anch’esso – Giselle: il linguaggio coreutico e la tecnica stessa della danza, profondamente innovati dal rivoluzionario “metodo Bournonville” saranno d’ora in poi luogo dell’agire eterno – non solo romantico – del dissidio incomponibile tra reale e ideale, del contrasto tra mondo materiale e universo sovrannaturale.

Nella versione coreografata da Johan Kobborg per prestigiosi teatri del mondo e ora alla State Opera di Praga, l’idioma della danza disegna l’irrisolto dualismo dell’anima romantica: e il Sehnsucht – il “male del desiderio” – del giovane protagonista incapace di aderire alla realtà contingente e da cui fuggirà infatti per inseguire tragicamente la sua Silfide, finisce per spogliarsi del connotato fiabesco e farsi elegia dell’irraggiungibile, del sogno come infinita ombra del vero.

Due mondi contrapposti che il vocabolario della danza disegna e la partitura musicale evoca, in perfetta reciproca simbiosi.

In quello reale si dipana la trama giocosa e festante delle nozze imminenti e che mai avverranno tra il giovane James e la dolce Effie, si dispiegano il vigore giovanile e l’ardore dell’eros nella coralità dei riti sociali, delle danze dagli echi folklorici: un mondo di vitale esuberanza che la fisicità dei danzatori – interpreti a tutto tondo – esalta e fonde con grazia naturale alla trama sonora; in mezzo, come silenti acque carsiche, scorrono l’intima insopprimibile irrequietezza del giovane James (Adam Zvonař), il presago turbamento della promessa e mancata sposa, la dolce Effie (Olga Bogoliubskaia), la baldanza compressa del rivale in amore (Francesco Scarpato).

Nell’altra dimensione, quella misteriosa ed onirica dell’intero secondo atto, ecco la levità della Silfide (Irinia Burduja) ecco il gioco tenero e ambiguo della seduzione, ecco la conquista dell’amore predestinato e impossibile, il sortilegio malefico della strega Madge (Miho Ogimoto); ecco infine, unica vincitrice, la morte.

Grazia, leggerezza, perfezione tecnica sono la cifra di questi luminosi danzatori, nell’intensità con cui disegnano la parabola tragica dell’amore distruttivo: fiaba romantica eppure senza tempo, quella della Sylphide, dove né il  sogno si tramuta in realtà, né le aspirazioni si compiono; dove la felicità è fantasma leggero fatto d’aria e di vento e la sconfitta, ancor prima che dell’eroe romantico è quella, eterna e sempre uguale, dell’uomo.

17 Aprile 2024                         Sara Di Giuseppe

“PARTEBELLO”, il PARTENONE d’acciaio di via MONTEBELLO

“PARTEBELLO”, il PARTENONE d’acciaio di via MONTEBELLO
[della serie: le pessime e/o scomode idee di PGC]

PARTEBELLO. Nella forma, evocherebbe il caro nostro vecchio “Mercato della Verdura” tutto cemento ed eternit ingiustamente demolito, ma ristilizzato e interamente d’acciaio [S 275 o S 355]. Progettato e realizzato, nel caso, dalla stessa premiata ditta che sta rumorosamente costruendo la tecnologica torre abitativa d’acciaio per ricchi di viale De Gasperi (ex villa Cicchi, o “casa rosa”).

PARTEBELLO. Leggero, iconico, artistico, inatteso, utile, eterno! Vagamente tempio greco e insieme post-industriale, ma non di design. Color arancio-rosso come il Golden Gate Bridge di San Francisco, da nuovo; con l’impegno e la voglia – con una festa di cambiargli colore ogni tot anni (giallo ocra, celeste, verde menta, lilla, rosso opaco, grigio ardesia…), come fanno con palette di colori ben più prudenti con la Tour Eiffel al momento delle obbligatorie cicliche manutenzioni. Per tetto una tecnologica veloce copertura scorrevole elettroidraulica. Tipo Wimbledon.

PARTEBELLO. Niente piante fiori e alberi, qui ogni verde muore. Invece, per rappresentanza, 2 grandi palme finte, pure d’acciaio. Nè asfalto né porfido per pavimento, piuttosto robusta resina colorata antiscivolo. PARTEBELLO, verso nord, potrebbe contenere una piccola finta vasca-piscina di città [la stessa simil-acqua già pensata per l’ex “casa rosa”], circondata fin nella strafficata via Montebello da cento ombrelloni tipo spiaggia raffiguranti le gloriose vecchie vele sambenedettesi ad uso anche “commerciale”: buoni per il mercato del venerdì. [Ehi, chi tocca il mercato muore!]

PARTEBELLO. Non partirebbe bello, questo insolito PARTENONE d’acciaio di via Montebello vicino alla brutta Stazione? Macchè. Ditelo.

17 aprile ’24